Collodio umido
L’impiego del collodio umido in fotografia è una idea dello scultore scozzese Frederick Scott Archer, che era solito ritrarre i soggetti usando le immagini come appunti visivi per la realizzazione delle sue opere. Insoddisfatto della qualità della calotipia, nel 1848 inventa un nuovo procedimento basato sul collodio (unione di cellulosa e acido nitrico in presenza di acido solforico e si presenta come una sostanza vischiosa). Questo addizionato da ioduro di potassio è steso su una lastra di vetro, che poi è immersa in una soluzione di nitrato d’argento. La reazione chimica, formando ioduro (o bromuro) d’argento, rende lo strato sensibile alla luce. La lastra dopo l’esposizione e lo sviluppo è fissata nell’iposolfito. I vantaggi di questo procedimento sono un ottima sensibilità, quindi tempi d’esposizione rapidi nell’ordine di decine di secondi, e negativi di grande qualità. Invece, gli svantaggi sono la fragilità del vetro come supporto e il fatto che le lastre devono essere preparate al momento e usate prima che il collodio diventi secco, poiché a quel punto risulta impermeabile alle soluzioni per lo sviluppo. Archer scelse di non brevettare la tecnica per renderla disponibile a tutti. Nonostante le difficoltà di approntare le lastre al di fuori degli stabilimenti fotografici e la necessità di fornirsi di camere oscure trasportabili, il procedimento diventerà il principale per i successivi tre decenni.